Da : Gilles Deleuze / CRITICA E CLINICA

  

 

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Qualsiasi scrittura comporta dell’atletismo, ma questa virtù atletica, lungi dal riconciliare la letteratura con gli sport o dal fare della scrittura una disciplina olimpica, si esercita nella fuga e nella defezione organiche. Uno sportivo a letto, diceva Michaux. Si diventa animale proprio in quanto l’animale muore e ne ha il senso o il presentimento. La letteratura incomincia con la morte del porcospino, secondo Lawrence”, o con la morte della talpa, secondo Kafka: “ Le nostre povere zampette rosse tese a invocare una tenera pietà”. […]

La letteratura incomincia solo quando nasce in noi una terza persona che ci spoglia del potere di dire Io (il “neutro” di Blanchot). […]
Così lo scrittore in quanto tale non è malato, ma piuttosto medico, medico di se stesso e del mondo. Il mondo è l’insieme dei sintomi di una malattia che coincide con l’uomo. La letteratura appare allora come un’impresa di salute: non che lo scrittore abbia necessariamente una salute vigorosa (ci sarebbe a questo proposito la stesa ambiguità dell’atletica), ma gode di un’irresistibile salute precaria che deriva dall’aver visto e sentito cose troppo grandi, troppo forti per lui, irrespirabili, il cui passaggio lo sfinisce, ma gli apre dei divenire che una buona salute dominante renderebbe impossibili. […]

[Gilles Deleuze, Critica e clinica, Cortina 1996, pp. 13-19]

da: I CANI DEL SINAI / Franco Fortini, 1967 / 3

 

“D’altronde, queste pagine non sono una appendice al Giardino dei Finzi-Contini. Hanno un’altra pretesa: suggerire l’esistenza di alcune macchie lutee, insensibili alla luce normale. La forma autobiografica, dovrebbe capirlo anche un critico di avanguardia, non è che modesta astuzia retorica. Parlo anche dei casi miei perché certo che solo miei non sono. Della mia “vita” non me ne importa quasi nulla. (p.35)

 

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Ricordo con quanta serietà penosa ho ricevuto, nel maggio del 1939, il battesimo che — retrodatato di dieci o dodici mesi – avrebbe dovuto scamparmi. Con che vergogna anche: non di apostasia ma di ipocrisia. In quei mesi, affannarsi a chiedere udienza alle autorità dei Gruppi Universitari Fascisti, a fare anticamere interminabili, col batticuore e l’inutile dignità, a sollecitare interventi di notabili o dichiarazioni di amici che attestassero la mia lealtà al regime. Ma non c’era verso, quelli del Fascio non erano così cretini, nessuno mi rinnovava più una tessera. Per due anni, fino a quando, liberatoria, non venne la chiamata alle armi, il vuoto intorno, mostrarmi amicizia, farsi vedere con me per le vie di Firenze, venire a cercarmi, poteva screditare, indicare. “Sporco ebreo antifascista”, queste parole, accompagnate da un pugno e dal sapore del sangue sui denti; e il pugno era quello d’un senior della Milizia, fratello d’un mio conoscente che avrei traviato col mio giudaismo; e miei i denti; in una via del centro di Firenze, tra la folla, primi di novembre del 1939, l’Italia non ancora belligerante: queste parole avrebbero dovuto fissarmi, identificarmi. Sette mesi dopo, dichiarata la guerra, al carcere delle Murate mio padre, in una bella mattina di giugno lo sciocco orgoglio di sedere per la cerimonia della laurea davanti ai professori della facoltà di lettere, in giacca scura, camicia bianca e cravatta. Ora intendo che quegli anni avrebbero dovuto legarmi ad una delle unità, dei nuclei fra cui vivevo e anzitutto, perché dei più colpiti, a quello degli ebrei; almeno al viso di mio padre che viveva solo per udire i timpani di radio Londra, affiochiti dai microfoni della cuffia clandestina. E invece mi ritraevo da tutto.

 

[Franco Fortini, I cani del Sinai, Quodlibet 2002, pp. 48-49]

BENJAMIN / ATGET


C’è un “valore cultuale” dell’opera d’arte, che arretra con l’affermarsi della fotografia, a cui si sostituisce il valore di esponibilità. L’opera d’arte può anche restare nascosta (in relazione al suo potere magico, al suo essere in funzione di un rito). Con la riproduzione tecnica dell’opera d’arte cresce la sua esponibilità e decade il valore cultuale. Con la fotografia il valore di esponibilità è al suo massimo; il valore cultuale resiste all’inizio solo nel ritratto, legato al ricordo dei morti (loro culto). Atget, per primo, fa scomparire il volto umano dalle vedute di Parigi. Il luogo del delitto è deserto.

[cfr. W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, par. V]

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 “I dettagli insignificanti e gli angoli miseri di Parigi nei primissimi anni del Novecento, che Atget coglie, non sono altra cosa. L’annidarsi di un senso quale che sia (di una qualche “bellezza”) all’interno di una corte privata, di gradini d’albergo, di una staccionata sghemba di legno (Moulin de la Galette, 1900), delle sudice baracche della Porte d’Ivry (1910) sembrerebbe eventualità remotissima, irrealizzabile; ci troveremmo, nel caso, di fronte al contrario di un’estasi davanti alla struttura, al “bello” inteso come armonioso; eppure l’immagine della rovina, del tralasciato, del pulviscolare, dell’insignificante dà senso, lo emette; meglio può trasmetterlo. Non è il senso pomposo dell’impresa, dell’eccezionale. È il senso a basso voltaggio, mite – volendo – ma non inesistente, della vita per come già (comunemente, per tutti) è. (E per come questa è – distrattamente – accostata, sfiorata).”

[ Marco Giovenale / http://slowforward.wordpress.com/2012/09/29/riambientarsi-ma-anche-difendersi/ ]

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http://www.masters-of-photography.com/A/atget/atget_quai_danjou_full.html

http://www.google.it/atget

da: I CANI DEL SINAI / Franco Fortini, 1967 / 2

Vivevo, senza saperlo, in un semidelirio estetico per le forme del mondo e per la sua storia e credevo fosse colpa, peccato, condanna. Non m’aiutavano le prime letture di Freud né i consigli, ironici o innamorati, delle compagne. Volevo essere cristiano e questo mi chiedeva una capitolazione, una rinuncia integrale: impossibile e perciò necessaria. L’esitazione, che accresceva in me il senso e il gusto di un male protratto, durava già da qualche anno. Come più tardi avrei pensato di fronte alla elezione d’un partito politico: bisognava accettare l’incarnazione, la limitazione di una chiesa, quasi di una setta, di una porta stretta, per entrare nella comunione dei redenti. Tutto questo faceva nodo di furia e di vergogna, disperazione e retorica: e il senso d’una vita senza sbocco. Non vorrei ricordare e in verità non ricordo, interpreto. Voglio capire che cosa mi da oggi diritto di abbandonare l’ultimo resto, l’ultima memoria attiva di ebraismo e a un tempo, quella spoglia, di assumerla come si assumono i lineamenti del proprio padre invecchiando.

[Franco Fortini, I cani del Sinai, Quodlibet 2002, p. 48 ]

http://www.ospiteingrato.org/Fortiniana/Fortini_Kafka.html

 

***

 

Se volessi un’altra volta…

Se volessi un’altra volta queste minime parole
sulla carta allineare (sulla carta che non duole)
il dolore che le ossa già comportano

si farebbe troppo acuto, troppo simile all’acuto
degli uccelli che al mattino tutto chiuso, tutto muto
sull’altissima magnolia si contendono.

Ecco scrivo, cari piccoli. Non ho tendine né osso
che non dica in nota acuta: “Piú non posso”.
Grande fosforo imperiale, fanne cenere.

[Franco Fortini, Composita solvantur, Einaudi 1994]

da: I CANI DEL SINAI / Franco Fortini, 1967

A dieci anni, a undici anni, era stato invece lo scontro esaltante, liberatore, con la scrittura, i Salmi, Giobbe, Isaia, letti e riletti con terrore e rapimento. Ma nulla che da quelle pagine lo riportasse alla fede dei padri. Il senso, così frequente negli adolescenti, d’una diversità e di una elezione segreta, non si univa, o ben poco, a quella sua condizione di “esentato” dalle lezioni di religione. Ancora oggi non riesce a intendere l’incontro di Kafka con gli scrittori jiddish come la via di un ritorno all’ebraismo e vi scorge piuttosto l’itinerario obliquo con cui Kafka recuperava il demonismo di società e culture popolari e contadine, subalterne ma libere, slave nel caso suo; e placava, o moltiplicava, il senso di colpa e di attrazione verso il popolo e la lingua boema di fronte ai quali la sua famiglia aveva scelto la parte dei dominatori, dello Herrenvolk.
Ma nemmeno quel poco di tradizione cristiana che filtrava nella famiglia gli sarebbe servito a muovere fuori dei termini della sua situazione, il cattolicesimo era qualcosa che si confondeva con lo Stato, con i fascisti e i professori della scuola. Solo il passato, la religione estetica delle antiche chiese ed armi fiorentine, Dante o Masaccio, commuovevano il ragazzo.

[Franco Fortini, I cani del Sinai, Quodlibet 2002, pp. 27-28 ]

http://www.ospiteingrato.org/fortiniana.html
http://www.quodlibet.it/schedap.php?id=1718
http://www.quodlibet.it/schedap.php?id=1956
http://www.quodlibet.it/images/pubblicazioni/Anteprima%20Fortini%20Lezioni.pdf

http://puntocritico.eu/?p=3680
http://www.italianisticaultraiectina.org/publish/articles/000168/article.pdf

http://old.cini.it/uploads/box/f2c1597590590c215f2021dadf6826fb.pdf
http://www.nazioneindiana.com/2006/11/04/rigore-e-liberta-brevissima-introduzione-al-cinema-di-huilletstraub-per-ricordare-daniele-huillet/
http://www.torinofilmfest.org/?action=detail&id=80
http://www.mohoma.it/prodotto-144531/Daniele-Huillet-et-Jean-Marie-Straub—Volume-2-4-Dvd.aspx

pasolini / palestine

http://www.ubu.com/film/pasolini_palestine.html

Directed by Pier Paolo Pasolini.
Italy 1965, 35mm, b/w, 52 min.

In 1963, accompanied by a newsreel photographer and a Catholic priest, Piero Paolo Pasolini traveled to Palestine to investigate the possibility of filming his biblical epic The Gospel According to Matthew in its approximate historical locations. Edited by The GospelÔs producer for potential funders and distributors, Seeking Locations in Palestine features semi-improvised commentary from Pasolini as its only soundtrack. As we travel from village to village, we listen to PasoliniÕs idiosyncratic musings on the teachings of Christ and witness his increasing disappointment with the people and landscapes he sees before him. Israel, he laments, is much too modern. The Palestinians, much too wretched; it would be impossible to believe the teachings of Jesus had reached these faces. The Gospel According to Matthew was ultimately filmed in Southern Italy. Mel Gibson would use some of the same locations forty years later for The Passion of the Christ.

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