Walter Benjamin / I «passages» di Parigi

Victor Hugo a proposito delle difficoltà che intralciavano i lavori di canalizzazione di Parigi: «Paris est bâti sur un gisement étrangement rebelle a la pioche, a la houe, a la sonde, au maniement humain. Rien de plus difficile à percer et à pénétrer que cette formation géologique à laquelle se superpose la merveilleuse formation historique, nommée Paris; dès que… le travail s’engage et s’aventure dans cette nappe d’alluvions, les résistances souterraines abondent. Ce sont des argiles liquides, des sources vives, des roches dures, de ces vases molles et profondes que la science spéciale appelle moutardes. Le pic avance laborieusement dans des lames calcaires alternées de filets de glaises très minces et de couches schisteuses aux feuillets incrustés d’écailles, d’huîtres contemporaines des océans préadamites». Victor Hugo, Œuvres complètes, Roman 9, Paris 1881, pp. 178-79 (Les Misérables).

«Rien n’égalait l’horreur de cette vieille crypte exutoire,.. antre, fosse, gouffre percé de rues, taupinière titanique où l’esprit croit voire rôder a travers l’ombre… cette énorme taupe aveugle, le passé». Victor Hugo, Œuvres complètes, Roman 9, Paris 1881, pp. 173-74 (Les Misérables; L’intestin de Léviathan).

[W. Benjamin, I «passages» di Parigi, Volume primo, p.461, Einaudi 2002)

BENJAMIN / ATGET


C’è un “valore cultuale” dell’opera d’arte, che arretra con l’affermarsi della fotografia, a cui si sostituisce il valore di esponibilità. L’opera d’arte può anche restare nascosta (in relazione al suo potere magico, al suo essere in funzione di un rito). Con la riproduzione tecnica dell’opera d’arte cresce la sua esponibilità e decade il valore cultuale. Con la fotografia il valore di esponibilità è al suo massimo; il valore cultuale resiste all’inizio solo nel ritratto, legato al ricordo dei morti (loro culto). Atget, per primo, fa scomparire il volto umano dalle vedute di Parigi. Il luogo del delitto è deserto.

[cfr. W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, par. V]

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 “I dettagli insignificanti e gli angoli miseri di Parigi nei primissimi anni del Novecento, che Atget coglie, non sono altra cosa. L’annidarsi di un senso quale che sia (di una qualche “bellezza”) all’interno di una corte privata, di gradini d’albergo, di una staccionata sghemba di legno (Moulin de la Galette, 1900), delle sudice baracche della Porte d’Ivry (1910) sembrerebbe eventualità remotissima, irrealizzabile; ci troveremmo, nel caso, di fronte al contrario di un’estasi davanti alla struttura, al “bello” inteso come armonioso; eppure l’immagine della rovina, del tralasciato, del pulviscolare, dell’insignificante dà senso, lo emette; meglio può trasmetterlo. Non è il senso pomposo dell’impresa, dell’eccezionale. È il senso a basso voltaggio, mite – volendo – ma non inesistente, della vita per come già (comunemente, per tutti) è. (E per come questa è – distrattamente – accostata, sfiorata).”

[ Marco Giovenale / http://slowforward.wordpress.com/2012/09/29/riambientarsi-ma-anche-difendersi/ ]

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http://www.masters-of-photography.com/A/atget/atget_quai_danjou_full.html

http://www.google.it/atget