A sé e agli altri

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su: Nadine Tabacchi, Attraverso il normale e il patologico. L’irriducibilità necessaria in G. Canguilhem
https://www.academia.edu/6877664/Attraverso_il_normale_e_il_patologico._lirriducibilita_necessaria_in_G._Canguilhem

La psichiatria dell’internamento forzato. Un ragazzo abbandonato, orfano, povero, internato a otto anni. Più di una semplice ipotesi l’utilizzo dei pazienti come cavie nella psichiatria, non solo delle origini: non concedevano alcuna alternativa a quelli che rinchiudevano. E il ceto sociale dal quale attingere era quello che più facilmente escludeva il diverso. Una bocca in meno da sfamare. Dall’analisi delle cartelle cliniche ci s’accorge della povera grammatica alla quale stanno appese: l’indicativo presente. Un tempo che esprime solo le loro certezze, e mai il dubbio.
“E un buon medico si ritrova nella soggettività del suo discorso sul paziente” scrive N. Tabacchi, perché giustamente se il medico non si mette in gioco nell’essere a tu per tu con il paziente, ritenendosi al di sopra della stessa malattia, scompare il soggetto malato, resta l’oggetto d’indagine, “c’era anche la feroce necessità di far sparire la soggettività intesa come mancanza di scientificità”. “Resta la mancanza della prova della malattia mentale, anche nella psichiatria attuale”; forse perché l’unico sostegno alle diagnosi sono i comportamenti, se ricevi una botta in testa, metaforica o meno, e continui a comportarti normalmente non sei mentalmente malato.
“Purtroppo però, quando il limite di una fra le scienze più umane, non viene contemplato, ma surclassato ritenendolo un fardello pesante atto solo a zavorrare e non viene compreso nelle sue possibilità, quel che ne uscirà è esattamente il manicomio tout court. […]. Luogo di detenzione, di soprusi ma anche di assurde sperimentazioni”. La parte sull’acido culicilico del saggio è impressionante e esemplifica dove davvero s’annida il germe della pazzia. Dopo aver martoriato il corpo dei malati si conclude “Ma solo attraverso la ricerca vi saranno sicuramente altre risposte positive”.
Forse la specie umana è quella che si conosce meglio di tutte le altre, anzi è l’unica perché le altre non hanno questa presunzione. Ma c’è un indicibile.
Il caso Antonio Elia Tubani. “Come fa Tubani, pur nella logica del suo ragionamento, a non capire che le voci che sente sono irreali? Pur riconoscendo che esse sono la causa della sua rovina”. Perché le prende per realtà e non arriva a comprendere la loro natura allucinatoria? Forse perché nel momento stesso in cui scrive le voci lo perseguitano ancora. Non è la voce in sé a inquietare, ma il suo referente. Il nemico non è la voce interiore, ma chi si è impadronito della sua coscienza, e ora detiene la voce. E lo obbliga a crederci, a seguirla. Non è più la voce della coscienza, ma di un’autorità superiore. I generali, i potenti del pianeta, ma anche un amico al quale bisogna riparare un torto. Denunciare il nemico interno è l’unica soluzione. Scrivere al nemico per invitarlo a smettere di compiere atti malsani, contro natura. “Quale disagio può determinare il sentirsi derubati e depauperati dei propri pensieri? Posseduti da altri, commentati da altri, consapevoli che quel che egli sente è frutto d’una tela ben più grande, enorme, di una tela tessuta da tutte le persone che lo circondano? Incastrati in una trappola operata da tutti? Ciò determina un’ansia mostruosa. Un cortocircuito difficilissimo da risolvere e che paradossalmente si autosostanzia infinitamente”. La mente viene invasa dagli altri, dalle voci critiche. Un’invasione che non si può raccontare perché incredibile, come un attacco alieno.
L’ospedale che reclude con i suoi medici e infermieri diventa oggetto reale della denuncia di Tubani, i suoi incubi paranoici si sono materializzati con l’internamento. Le voci hanno preso corpo. “Ma se le frasi inerenti la ‘trasmissione’ ci evidenziano la malattia di Antonio, queste ultime frasi invece sono così lucide e sensate che ci fanno comprendere anche la malattia del manicomio. Sono così limpide da far capire come la cura divenisse detenzione forzata, distante dallo scopo della medicina di guarire, somigliante piuttosto al carcere. La liberazione di questi malati attuata in Italia da Basaglia deve riecheggiare attraverso queste parole”. Dovunque nasca la malattia (nel double bind), comunque si sviluppi (nello svincolo impossibile), la sua degenerazione deriva dall’internamento. E se, come risulta dalle lettere di Tubani, un individuo si sente sequestrato, significa che la sua mente concepisce la sola cosa capace di definire un uomo, la sua libertà. E questo, in genere, vale per ogni essere vivente.
alfredo riponi

 

http://www.mimesisedizioni.it/Frontiere-della-psiche/A-se-e-agli-altri.html?Itemid=0

«A sé e agli altri. Storia della manicomializzazione dell’autismo e delle altre disabilità relazionali nelle cartelle cliniche di S. Servolo». A cura di Concetta Russo, Michele Capararo, Enrico Valtellina. Mimesis 2014

L’autismo, considerato al tempo della sua individuazione (gli anni quaranta del secolo scorso) e per molto a seguire una condizione rara, negli ultimi due decenni è diventato oggetto di un’attenzione crescente, non solo da parte del sapere medico e delle politiche sociali che da questo procedono, ma in senso più ampio di un’attenzione culturale assolutamente straordinaria per una condizione patologica. Risalendo lungo il crinale della storia e attraverso l’analisi delle cartelle cliniche dell’Archivio dell’ex Ospedale Psichiatrico di San Servolo a Venezia, questo libro indaga le categorie della nosografia psichiatrica tardo ottocentesca che facevano segno alle problematiche relazionali, ciò che oggi viene accorpato nella vasta e multiforme area dei disturbi generalizzati dello sviluppo dello spettro autistico, e la gestione delle stesse nelle istituzioni totali. Ciò che ne risulta non è solo una sorta preistoria dell’autismo, ma una riflessione critica che indaga questa diagnosi come oggetto culturale.