J. THIBAUDEAU / OUVERTURE

Nel cielo, nel cielo i pini si dondolano soli, e il vento non è che folate improvvise e calme di freddo,mentre apriamo le imposte delle camere, e la luce a fiotti, in tutte le stanze chiuse, si affretta a sommergere i resti della notte, e si mettono le lenzuola sui davanzali delle finestre, perché prendano aria

(p. 30)

Eppure, chi si mettesse a otto o dieci passi, una mattina, agrimensore ideale della memoria, nel pieno sole, che fa chiudere gli occhi – si può, tra le ciglia, ogni altra cosa intorno assente, sottratta, può alla fine incontrare

(p. 36)

Queste terre che vediamo sono visibili da differenti punti della città, da certe strade in discesa, all’improvviso. Verdi e bruni, i colori d’una carta geografica. Prati, campi, orti, vigne sul margine della foresta. Poggi, su cui potremmo salire. Dove andiamo, per le strade tranquille, oltre i sobborghi fioriti della città, a svolte

Un castello. Il muro attraverso i campi. Il ponte, il fiume, il riparo degli alberi ed il piccolo stagno in mezzo al prato. La strada bianca. I frutti nella siepe. E sappiamo che al di là, e da tutte le parti, un frammento dopo l’altro come qui, nella stessa maniera, il mondo continua lontanissimo per ritornare qui, è infinito e rotondo

(p. 44)

[da : J. Thibaudeau, Ouverture, Einaudi 1969].


Guido Neri nella postfazione osserva che “Autobiografia vale qui come l’opposto di ciò che intendiamo comunemente per racconto biografico. Dietro il libro non c’è una personalità che si esponga come tale, garantendo la congruenza della finzione a un supporto di verifiche fisiologiche definito memoria: c’è, di istituzionale, solo un nome, una firma, e sul piano funzionale un io inteso come semplice modalità grammaticale…”

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