le verger | harry mathews

Arrivò… proprio mentre il frutteto cominciava a fiorire.

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Ricordo d’essere rientrato a casa con Georges Perec dopo cena per fumare erba e ascoltare musica classica – opere grandiose, come il Requiem di Brahms – sdraiati sul tappeto del soggiorno, rotolandoci di piacere nei passaggi culminanti. In quei momenti, avrei voluto tenerlo tra le mie braccia.

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Ricordo che durante la nostra prima cena dopo la fine della sua psicanalisi, Georges Perec mi disse che adesso, quando scendeva in strada per imbucare una lettera, era conscio che stava scendendo in strada per imbucare una lettera.

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Ricordo di aver visto Georges Perec nella sua bara all’obitorio dell’ospedale: il suo viso era raggrinzito e serio, la bocca chiusa in modo innaturale (come se le labbra fossero state cucite per evitare che la mascella si afflosciasse), era stato pettinato in modo che i suoi capelli si attaccassero alla testa (quale impiegato di pompe funebri avrebbe potuto concepire il suo “afro”?) Catherine B. esclamò: “Ma non è lui!” e gli passò le dita tra i capelli per scompigliarli.

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Ricordo che durante uno dei nostri ultimi pasti insieme, Georges Perec espresse la sua tristezza di non avere una famiglia. Ad esempio, non sarebbe mai diventato l’erede di qualcuno. Gli promisi di metterlo nel mio testamento se questo poteva consolarlo.

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Ricordo che quando conobbi Georges Perec aveva un “problema di donne”. Sognava una donna bella, intelligente e realizzata che, nel bel mezzo dei suoi viaggi in giro per il mondo, apparisse di tanto in tanto davanti alla sua porta per offrirgli un amore assoluto, per poi scomparire.

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Ricordo di essermi svegliato undici giorni dopo la morte di Georges Perec per rendermi conto che stavo trasformando il ricordo di questa morte nella convinzione che ogni giorno sarebbe stato guastato in anticipo – una sorta di “angoscia del risveglio” ben comoda di cui ero tuttavia riuscito a sbarazzarmi sette anni prima.

(Harry Mathews, Le Verger, POL 1986)