un ricordo d’infanzia di piero della francesca | hubert damisch

Che la nascita virginale (partenogenesi) potesse essere considerata un segno della divinità è un tratto che era già presente nella cultura ebraica: la profezia di Isaia invocata nel vangelo di Matteo, attraverso la voce dell’angelo che appare in sogno a Giuseppe per dissuaderlo dal ripudiare Maria, intendeva esplicitamente questo: «Ecco, la giovane vergine concepirà e partorirà un figlio, che sarà chiamato Emmanuele» (Is 7,14).

I vangeli canonici riservano solo una piccola parte a Maria, che non sempre viene presentata nella luce più positiva. Il racconto dell’infanzia di Cristo, come si può leggere nel Vangelo di Luca, costituisce tuttavia la fonte primaria dei grandi “misteri” legati alla figura della Vergine e alla sua persona. Dei quattro dogmi: della Maternità Divina, della Verginità postpartum, dell’Immacolata Concezione e dell’Assunzione, solo il primo ha la sua fonte inequivocabile nei Vangeli di Matteo e Luca. Ma tanto basta per fare appello all’immaginario che qualifichiamo un po’ troppo frettolosamente come “popolare”: perché i Padri della Chiesa e i teologi non sono da meno e hanno fatto meglio e di più che rispondere alle attese dei loro lettori. E come avrebbe potuto essere altrimenti, dal momento che i problemi che dovevano affrontare erano in stretto rapporto con la questione che secondo Freud era la più antica e scottante della giovane umanità?

Come fa, per andare a fondo – se così posso dire – del “tema” della Madonna del Parto, Pozzi attenendosi rigorosamente alla formula che la letteratura spirituale gli offre e che gli sembra tradurre più fedelmente il “messaggio”: ovvero qualcosa tra il “corpus Mariae quasi tabernaculum”, tratto dal commento ai Salmi dello pseudo-Girolamo, il “tabernaculum Filii Dei”, che concorda con il dogma di Maria theotokos, “madre di Dio”, e il “Verbum infans”, il Verbo fatto carne – il verbo in-fans, il verbo che non ha (o non ha più) parola, il verbo fatto immagine – che lo conferma. Sicché la Madonna del Parto non sarebbe altro che la traduzione in termini figurativi del mistero dell’Incarnazione. La denominazione “Maria-tabernacolo” si applicherebbe all’icona come farebbe una carta trasparente (lucido).

Come sottolinea Pozzi, parola e immagine corrispondono ad articoli fondamentali della dottrina cristiana, l’incarnazione del Verbo costituendo il fondamento teologico che conferisce all’immagine la sua legittimità in rapporto alla parola. Così come Dio creò l’uomo a sua immagine, l’invisibile si vede nella carne. Ma la questione della figurabilità assume in questo contesto un rilievo singolare, attraverso la torsione di una formula mariana citata da Pozzi: se il Cristo non potesse essere rappresentato nell’arte, ciò significherebbe che sarebbe nato solo dal Padre, e non dalla madre: se la madre è figurabile, il figlio a sua volta deve esserlo. La formula si presta a un’inversione risolutamente “moderna”, quella operata da Jean-Luc Godard, nel preludio al suo film Je vous salue Marie: e se la madre stessa fosse mostrata solo attraverso il mutamento di questo corpo, di questa nascita che ha accolto? Questo ci rimanda al legame colto da Balzac ne Il Capolavoro sconosciuto, tra l’impossibilità di dipingere la donna e la questione, in generale, della figurabilità nel campo artistico: la Vergine – e, in quella che sarà la sua “storia”, il momento dell’attesa, quando il corpo del bambino non è ancora venuto alla luce.

La Madonna del Parto non guarda lo spettatore, racchiusa come sembra essere nel proprio sogno e occupata dall’unico evento di cui il suo corpo è il luogo, in una distanza invalicabile (immagine, come spiega ancora Jean-Luc Godard, della contraddizione che rende interessante il tema: perché non possiamo essere vicini alla Vergine?).

[Hubert Damisch, Un souvenir d’enfance par Piero della Francesca, Seuil 1997]

Trad. it. di A. Riponi

[Giovanni Pozzi, «Maria tabernacolo», in Sull’orlo del visibile parlare, pp. 17-88, Adelphi 1993]

[Jean-Luc Godard, Je vous salue, Marie, 1985]

traduzione | hubert damisch

« … la tache que Walter Benjamin assignait au traducteur : à la différence de l’écrivain, plongé, immergé dans sa langue, le traducteur reste à distance de la sienne, travaillant à y faire retenir l’appel du texte original, là où l’écho d’une langue étrangère peut se répercuter dans la langue de sortie… […] chaque langue de traduction travaillant à partir de son propre manque, de sa propre incomplétude, à révéler, à réveiller l’affinité entre les langues […] et poursuivant le dessin d’intégrer la pluralité des langues dans une langue unique. »

[H. Damisch]