Věra Linhartová – Ritratti carnivori (II)

Senz’ombra di dubbio, una comunicazione sotterranea aveva luogo tra lui e qualcun altro. Poteva seguirne le ramificazioni, senza mai risalire sino alla fonte. Avvertiva chiaramente gli impulsi e le risonanze che passavano tra lui e lo sconosciuto. Ma non riusciva mai a varcare la soglia oltre la quale quelle sottili vibrazioni svanivano nel buio. Meglio cosi, forse. Registrava le onde che lo attraversavano, non si curava né delle loro origini né del loro impatto.

[…]

Ma c’erano gli incontri. In particolare, ci fu quello vicino alla fontana, un incontro altamente improbabile sebbene atteso con certezza, seguito da diversi altri, ugualmente presentiti. Una volta ancora, l’inevitabile aveva iniziato il suo corso. Il cielo era denso di presagi e le vie parallele si incontravano in punti di intersezione per forza di cose fuori dal tempo. A ognuna di queste apparizioni lo spazio si disintegrava, si scardinava. Proprio nel mezzo si trovava un sentiero, serpeggiante nel fondo di un abisso, mentre su entrambi i lati ripidi pendii si sfaldavano, crollavano o si aprivano come ventagli. Nel silenzio senza eco che avvolgeva quei momenti, le parole effettivamente pronunciate non erano più all’altezza, le apparenze più convincenti non avevano più corso. Non avete mai notato che è la luce a snaturare la naturale trasparenza delle cose immerse nel buio senza ombra? In ogni caso, questa limpidezza notturna, questa penetrante presenza di cose spogliate dei loro inutili involucri, gli era diventata familiare.

[…]

Gli eventi ormai gli scivolavano addosso, era fuori tiro. Non c’era nulla da capire. Una parola nasceva in lui, un vocabolo, un incantamento. Un tono disteso su tutta l’eternità. Che niente dice. Che niente esprime. Che non si appella a nessuno. Talvolta alcuni oggetti emergevano dal grigiore, non facevano che ferirlo con la loro opacità. Un ramo senza foglie dietro il vetro, nello sfondo di una collina oscurata dove si accendevano le prime luci della sera. Che fare di questa immagine? Distolse lo sguardo per fissarlo su un punto invisibile, vi regnava un silenzio cosi profondo che riusciva a udirlo ad ogni istante.

(Věra Linhartová, Sagiro il Maestro, in Ritratti carnivori, edizioni e/o 1987)

*

Věra Linhartová, narratrice e poetessa ceca (Brno 1938). Critica d’arte legata negli anni Sessanta al Gruppo surrealista di Praga (di quegli anni sono i versi pubblicati poi in Giano dai tre volti, 1993), autrice di monografie su artisti figurativi (A. Tapiés, J. Šima), dalla sua produzione narrativa estremamente rarefatta esala un indubbio quanto inquietante fascino. In un’epoca di obbligato realismo, i bizzarri e quasi astratti racconti che aveva cominciato a scrivere sul finire degli anni Cinquanta – poi confluiti in Uno spazio da distinguere (1964), Interanalisi del fluito prossimo (1964), Discorso sul montacarichi (1965), L’eppurlinguaggio (1967) e Una casa lontano (1968) – mettono in scena le raggelate geometrie di una razionalità che delega alle circonvoluzioni del discorso quel senso solo raramente veicolato da un qualche sviluppo della trama. In Chimera, ovvero Sezione di cipolla (1967, pub. nel 1993), l’ultimo testo in ceco, il tono sembra farsi invece più discorsivo, con compiaciute divagazioni letterarie. Trasferitasi nel 1968 a Parigi, la sua ricerca all’interno del linguaggio è continuata in francese nei testi brevi, quasi poemetti in prosa, di Twor (1974) e Intervals (1979; Intervalli). Risultato forse del nuovo interesse per la cultura giapponese d’avanguardia (cui ha poi dedicato studi e traduzioni) sono il ritorno al figurativo e la nuova scrittura cesellata che pervade Portraits carnivores (1982; Ritratti carnivori), tre accorate variazioni sul tema del vuoto, dell’isolamento cercato, e i racconti di Anachroniques (1995) e Mes oubliettes (1997). (www.sapere.it)

Avita Ronell – Creatività

Friedrich von Schlegel. Dice che senza l’incomprensione avremmo paura, saremmo angosciati e tentati di suicidarci, perché la comprensione annuncerebbe la fine del mondo: se potessimo capire gli amici, la famiglia, la nazione, ci suicideremmo subito. E Schlegel ha cominciato a parlare dell’inconscio. Ha tentato di mostrare che l’inintelligibilità è qualcosa che protegge, di cui abbiamo bisogno e che ispira la generazione, la creazione del pensiero, della letteratura, della finzione.
Questo gesto prenietzschiano parla del nostro bisogno di finzione, di illusione e di artificio per non pensare al suicidio. La comprensione e il reale visto in faccia sono troppo distruttivi.

(Avita Ronell, Giornale di una tossicofilomaniaca, il nuovo melangolo 2008)

Ghérasim Luca – Comme un monologue à peine dirigé

Comme un monologue à peine dirigé
“La quête du Graal fut une aventure terrestre”

Un beau ténébreux.
“ …ce texte aimanté et invisible qui guide
inconsciemment le poète à travers le clair-obscur
déjà si hasardeux du langage écrit. ”

Un beau ténébreux.
quelle pensée bien à soi
la bande straight
ce train hargneux des houles
le signal
parfaitement juste
tout brillant de retenue
Béatrix
est
illuminations
d’où l’on tourne le dos à la vue
à ceux qui ne transigent pas
La Tosca
l’amour au-delà
comme en plein jour
une lumière d’apocalypse
un jour
est avant tout la femme
en face d’une des femmes
les plus impitoyablement dépersonnalisées
par son sexe
qu’elle va devenir
Dramatis personæ
Mais il y a toujours un coup de foudre
décidé

tout
Je ne le supporterai pas
encore

(…)

*

*

Qui vive ? Autour de Julien Gracq, Paris, José Corti, 1989 [Comme un monologue à peine dirigé].

« Argol. Comme un monologue à peine dirigé » : texte de Ghérasim Luca, publié dans le recueil Qui vive? Autour de Julien Gracq, (donation de Micheline Catti-Luca) PARIS. Bibliothèque littéraire Jacques Doucet GHL ms 172 95 ff.

*

« Texte conçu à partir d’expressions issues de l’univers romanesque gracquien, insérés dans une nouvelle continuité poétique. Le repérage de l’origine de ces citations inscrites dans le texte en italique demeure une voie de recherche à explorer. Il permettrait d’esquisser un ‘art de la lecture poétique du roman’. Ghérasim Luca, en soulignant ces emprunts invite explicitement à une telle entreprise de lecture seconde ». (D. Carlat, Ghérasim Luca l’intempestif, José Corti 1998)

Luca Zendri – La fabbrica delle psicosi

“Il sole splendeva, senza possibilità di alternative, sul niente di nuovo” (S. Beckett, Murphy).
Spossessamento, peso del mondo, un mondo che gira e rigira nella testa, ma non si mette mai a posto, quel che c’è “dentro al mondo” non trova un’analogia nelle immagini che si formano nella mente. Tutto gira “come la pompa di una caldaia”, ma è una produzione senza scopo, e il corpo, nello sforzo titanico per arrivare alla fine del processo, va in frantumi. Perché tutto questo? Per paura della morte, che il mondo s’estingua, la fine del mondo. L’assenza è ovunque, perché ogni cosa finisce; gli altri – chi  ci ama – ci lasciano. E cadiamo nell’abisso del nulla.
Il rapporto con la morte, il lutto, l’assenza, non è soltanto individuale, ma coinvolge in generale la biologia del corpo, e le generazioni precedenti (il clan psicotico) che hanno vissuto sia sulla loro pelle, sia immaginariamente, il dramma della morte. Segreto di famiglia trans-generazionale, lutto impossibile, sotterramento di un vissuto inconfessabile, incorporazione segreta dell’altro.
Inchiodati al nostro io, al pensiero di un corpo che si sa e si vuole mortale, siamo anche esposti allo sguardo degli altri, la famiglia, che sorveglia.
“La metamorfosi dell’uomo esige migliaia di anni per la formazione del tipo, e poi delle generazioni; sicché un individuo percorre durante la sua vita quella di molti individui” (F. Nietzsche).
“L’uomo ha fame di localizzazione astratta quanto ha fame di proteine, zuccheri e grassi. L’uomo muore di fame, o di privazione astratta di un luogo invisibile, ma logico, in cui trovarsi con il consenso di qualcuno” (p. 52). Questo potere di astrarre dal mondo per ritrovarsi in un luogo non luogo (invisibile, astratto) è fondato sul linguaggio, sulla possibilità di parlare di fronte a un tu altrettanto disincarnato, voce – via – voce, senza la via silenziosa del linguaggio è l’assenza di mondo, è il vuoto, è la mancanza di un riparo nel mondo.
È l’atto di parola che rende possibile il movimento nel mondo contro lo “stare fermo” dei corpi, immobilizzati in questa parte d’universo. La parola viaggia e ritorna incessantemente indietro. Ma prima d’essere “nulla solido reale” la parola è cibo reale solido e fluido. Non generare un mondo chiuso per un essere non generato.
Entra in gioco nella vita dell’individuo la parola “essere” che non è più soltanto il termine di un movimento dialettico “essere / non essere”, ma è il proprio “essere nel mondo”. L’Esserci che ci rappresenta, che non può essere alterato, falsificato. Questa rappresentazione del sé che è il proprio “corredo ontologico”.
“La metafisica non può proporsi di raggiungere quell’atto di esistenza (ipsum esse) che secondo San Tommaso, è il nucleo centrale di ogni essere” (E. Gilson). L’univocità dell’essere o la pura soggettività (Dio) si contrappone a quegli atti di esistenza che contraddistinguono la coscienza intenzionale.
“Questo “avere nello sguardo”, “negli occhi della mente”, appartenente all’essenza del Cogito, non è esso stesso un atto distinto, non può venire scambiato con un percepire. L’oggetto “intenzionale” della coscienza non è l’oggetto-afferrato. […]. Nell’atto del valutare, in quello del gioire, nell’amare, nell’agire, prestiamo però attenzione al valore, all’oggetto che ci rende felici, all’oggetto amato, all’azione senza afferrare nulla di ciò” (Husserl, Idee I).

alfredo riponi

*

La fabbrica delle psicosi

Tradizionalmente la diagnosi di psicosi si applica ad una singola persona, a quella donna lì, a quell’uomo lì. Questo libro studia le psicosi come fenomeno più vasto, che interessa almeno due delle generazioni precedenti la nascita della malattia nel singolo. Luca Zendri fa emergere le leggi che regolano i “clan” psicotici, leggi inesorabili e condivise, anche se del tutto invisibili che l’ambiente familiare rispetta come si obbedisce a un meccanismo implicito. Il metodo di lavoro è quello della psicoanalisi, applicata questa volta a uno dei terreni più delicati e scivolosi della clinica. Osservate e studiate attraverso la lente analitica, le psicosi ci aiutano forse a scorgere alcune caratteristiche della nostra specie, così sensibile alla “lingua matematica” con cui sembra parlarci la natura.
Indice: Prefazione. i. Il meccanismo delle psicosi (1. La macchina; 2. La delocalizzazione; 3. Il clan psicotico; 4. La manovra di spossessamento; 5. «Stai fermo lì»; 6. La madre; 7. La fenomenologia della miseria; 8. Mors tua, vita mea; 9. I sorveglianti; 10. La parola come proiettile retico; 11. Come fare cose con le parole). ii. In corpore vivo: vite esemplari (1. La psicosi perfetta; 2. Instrumentum regni; 3. Il cosiddetto “resto”; 4. Il cervello macchina). iii. La terapia (1. Dentro o fuori dalla macchina: un’alternativa secca; 2. La bolla innocua dello spazio analitico; 3. La sostituzione concessiva; 4. L’inversione della macchina e l’impensabile; 5. La piena libertà di un dispositivo). Bibliografia.

http://www.quodlibet.it/

Ghérasim Luca – La Mort morte

L’ultima raccolta alla quale Ghérasim Luca lavorò si compone di due lunghi poemi già pubblicati nel 1945 in Romania: L’inventore dell’amore e La Morte morta. Questi testi, ai quali Ghérasim Luca rimise mano prima della morte, sono in diretta relazione con il “Primo manifesto non-edipico”, testo scomparso. L’inventore dell’amore propone la sua reinvenzione, in un mondo in cui “tutto dev’essere reinventato” e che impone il distacco da una condizione edipica, che rende l’amore impossibile. In “La morte morta” è la dialettica immediata (non filosofica) di amore e morte a costituire il fulcro della ricerca. Il desiderio dell’amore insieme alla morte ingenera un cortocircuito, dove umorismo nero e vertigine esistenziale s’inseguono […].

*

C’est avec une extrême volupté mentale
et dans un état d’excitation
affective et physique ininterrompu
que je poursuis en moi et hors de moi
ce numéro d’acrobatie infinie

Ces sauts contemplatifs actifs et lubriques
que j’exécute
simultanément allongé et debout

jusque dans ma façon déroutante
ou ignoble ou profondément aphrodisiaque
ou parfaitement inintelligible
de saluer de loin mes semblables

de toucher ou de déplacer
avec une indifférence feinte
un couteau, un fruit
ou la chevelure d’une femme

ces sauts convulsifs que je provoque
à l’intérieur de mon être
convulsivement intégré
à la grandiose convulsion universelle

et dont la dialectique dominante
m’était toujours accessible
même si je n’en saisissais
que les rapports travestis

ont commencé ces derniers temps
à m’opposer leur figure impénétrable
comme si
tout à la tentation de rencontrer
plus que moi-même
sur la surface d’un miroir
j’en grattais impatiemment le tain
pour assister
stupéfait
à ma propre disparition

Il ne s’agit pas ici d’une maladresse
sur le plan de la connaissance
ni de la pieuse manœuvre de l’homme
qui avoue orgueilleusement son ignorance

Je ne me connais aucune
curiosité intellectuelle

et supporte sans le moindre scrupule
mon peu d’intérêt
pour les quelques questions fondamentales
que me posent mes semblables

Je pourrais mourir mille fois
sans qu’un problème fondamental
comme celui de la mort
se pose à moi
dans sa dimension philosophique

cette manière de se laisser inquiéter
par le mystère qui nous entoure
m’as toujours paru relever
d’un idéalisme implicite
que l’approche soit matérialiste ou non

La mort en tant qu’obstacle
oppression, tyrannie, limite
angoisse universelle

en tant qu’ennemie réelle, quotidienne
insupportable, inadmissible et inintelligible
doit, pour devenir vraiment vulnérable
et, partant, soluble
m’apparaître dans les relations dialectiques
minuscules et gigantesques
que j’entretiens continuellement avec elle
indépendamment de la place qu’elle occupe
sur la ridicule échelle des valeurs

En regard de la mort
un parapluie trouvé dans la rue
me semble aussi inquiétant
que le sombre diagnostic d’un médecin

Dans mes rapports avec la mort
(avec les gants, le feu, le destin
les battements de cœur, les fleurs…)

prononcer fortuitement
le mot “moribonde”
au lieu de “bien-aimée”
suffit pour alarmer ma médiumnité

et le danger de mort
qui menace ma bien-aimée
et dont je prends connaissance
par ce lapsus de prémonition subjective
(je désire sa mort)
et objective (elle est en danger de mort)
m’inspire une contre-attaque
d’envoûtement subjectif
(je ne désire pas sa mort
– ambivalence intérieure, culpabilité)
et objectif (elle n’est pas en danger de mort
– ambivalence extérieures, hasard favorable)

Je fabrique un talisman-simulacre
d’après un procédé automatique
de mon invention (“l’Œil magnétique”)

la fabrication de ce talisman
intégrée aux autres surdéterminantes
prémonitoires, angoissantes, accidentelles
nécessaires, mécaniques et érotiques
qui délimitent ensemble
un comportement envers la mort
étant la seule expression praticable
d’un contact dialectique avec la mort
la seule à poser réellement
le problème de la mort
en vue de sa solution (de sa dissolution)

L’état de désolation-panique
et de catalepsie morale
auquel m’a réduit la récente incompréhension
de mes propres sauts dialectiques
n’a aucun rapport avec une attitude
intellectuelle
devant le problème de la connaissance

[…]

*

È con estrema voluttà mentale
e in uno stato di eccitazione
affettiva e fisica ininterrotta
che perseguo in me e fuori da me
questo numero di acrobazia infinita

Questi salti contemplativi attivi e lubrici
che eseguo
simultaneamente disteso e in piedi

e nel modo sconcertante
ignobile, profondamente afrodisiaco
o perfettamente inintelligibile
di salutare da lontano i miei simili

di toccare o spostare
con finta indifferenza
un coltello, un frutto,
o i capelli di una donna

questi salti convulsi che genero
all’interno del mio essere
convulsamente integrato
alla grandiosa convulsione universale

e la cui dialettica dominante
mi era sempre accessibile
anche se ne afferravo
soltanto i rapporti deformati

hanno cominciato in questi ultimi tempi
a oppormi la loro figura impenetrabile
come se
concentrato nella tentazione di incontrare
più di me stesso
sulla superficie di un specchio
ne grattassi impazientemente l’argento
per assistere
stupefatto
alla mia propria scomparsa

Non si tratta qui di goffaggine
sul piano della conoscenza
ne della devota manovra di un uomo
che confessa orgogliosamente la sua ignoranza

Non mi riconosco alcuna
curiosità intellettuale

e sopporto senza il minimo scrupolo
il mio scarso interesse
per le domande fondamentali
che mi pongono i miei simili

Potrei morire mille volte
senza pormi
un problema fondamentale
come quello della morte
nella sua dimensione filosofica

quest’inquietudine derivante
dal mistero che ci circonda
mi è sempre apparsa come il frutto
di un idealismo implicito
che l’approccio sia materialista o non

La morte come ostacolo
oppressione, tirannide, limite,
angoscia universale

come nemica reale, quotidiana
insopportabile, inammissibile e inintelligibile
deve, per diventare veramente vulnerabile
e, pertanto, solubile,
apparirmi in relazioni dialettiche
minuscole e gigantesche
che intrattengo continuamente con lei
indipendentemente dal posto che occupa
sulla ridicola scala dei valori

Di fronte alla morte
un ombrello trovato per strada
mi sembra altrettanto inquietante
dell’infausta diagnosi di un medico

Nei miei rapporti con la morte
(coi guanti, il fuoco, il destino,
i battiti del cuore, i fiori…)

pronunciare fortuitamente
la parola “moribondo”
al posto di “amata”
basta a mettere in allarme la mia medianità

e il pericolo di morte
che minaccia la mia amata
e di cui prendo conoscenza
attraverso questo lapsus di premonizione soggettiva
(desidero la sua morte)
e oggettiva (è in pericolo di morte)
m’ispira il contrattacco
di un sortilegio soggettivo
(non desidero la sua morte
– ambivalenza interiore, colpevolezza)
e oggettivo (non è in pericolo di morte
– ambivalenza esterna, caso favorevole)

Fabbrico una talismano-simulacro
secondo un procedimento automatico
di mia invenzione (“L’Occhio magnetico”)

la fabbricazione di questo talismano
integrata alle altre sopradeterminanti
premonitrici, angosciose, accidentali
necessarie, meccaniche ed erotiche
che delimitano tutte insieme
un comportamento verso la morte
che è la sola espressione praticabile
di un contatto dialettico con la morte
l’unica a porre realmente
il problema della morte
in vista della sua soluzione (della sua dissoluzione)

Lo stato di desolazione-panica
e di catalessi morale
al quale mi ha ridotto la recente incomprensione
dei miei salti dialettici
non ha alcun rapporto con un’attitudine
intellettuale
di fronte al problema della conoscenza

[…]

Ghérasim Luca, L’inventeur de l’amour, suivi de La mort morte, José Corti 1994

(trad. Alfredo riponi)

Ghérasim Luca – Le Vampire passif

Les objets, ces mystérieuses armures sous lesquelles nous attend, nocturne et dénudé, le désir, ces pièges de velours, de bronze, de fils d’araignée que nous nous jetons a chaque pas; chasseur et gibier dans les pénombres des forêts, a la fois forêt, braconnier et bûcheron, le bûcheron tué à la racine d’un arbre et couvert de sa propre barbe sentant l’encens, le bien, le cela-n’est-pas-possible ; enfin libres, enfin seuls avec nous-mêmes et avec tout le monde, avançant dans l’obscurité avec les yeux des chats, avec les dents du chacal, avec les cheveux à cernes lyriques, défaits, sous une chemise de veines et d’artères à travers laquelle le sang coule pour la première fois, nous sommes éclairés en nous-mêmes par les grands projecteurs du premier geste, disant ce qui devait être dit, faisant ce qui devait être fait, conduits parmi les lianes, les papillons et les chauve-souris, comme le blanc et le noir sur un échiquier; personne ne songe à interdire les cases noires et le fou, – les fourmis disparaissent, le roi et la reine disparaissent, les réveille-matins disparaissant à leur tour, nous introduisons de nouveau la canne, la bicyclette à roues inégales, la pendule, le dirigeable, gardant le siphon, le récepteur téléphonique, la douche, l’ascenseur, la seringue, les  appareils automatiques où a l’introduction chiffre apparaît du chocolat; les objets, cette catalepsie, ce spasme fixe, ce « fleuve dans lequel on ne se baigne qu’une seule fois » et dans lequel nous nous plongeons comme dans une photo ; les objets, ces pierres philosophales qui découvrent, transforment, hallucinent, communiquent notre hurlement, ces hurlements de pierre qui brisent les flots, par lesquels passent l’arc-en-ciel, des images vivantes, des images de l’image, je rêve à vous parce que je rêve a moi, je vise hypnotiquement le diamant que vous contenez, avant de m’endormir, avant de vous endormir, nous traversons réciproquement comme deux fantômes dans une salle de marbre avec, aux murs, les portraits des ancêtres grandeur nature, le portrait d’un chevalier médiéval se trouvant a côté du portrait d’une chaise, regardant les deux fossiles de fantômes sur les murs de ce musée spectral et s’il est vrai que nous sommes des ombres alors les hommes et les objets qui nous environnent ici ne sont que les os des ombres, les ombres des ombres, parce qu’ici on ne meurt pas, ici la disparition, l’éloignement ou la putréfaction d’une femme ne tue pas le désir auquel elle se rattache comme la flamme d’une bougie au jeu d’ombre et de lumière qu’elle entretient autour d’elle, quand, tremblant entre les draps et transfiguré par la fièvre, on murmure son nom adoré ; non, tant que le désir persiste on ne meurt pas : les hommes qui vivent meurent plus facilement, les hommes que je rencontre dans la rue faisant des gestes accoutumés, souriants ou fronçant les sourcils sur les terrasses des cafés ou dans le métro, pressés, portant des chapeaux, portant des oreilles. Ces hommes sont depuis longtemps morts bien qu’ils ne soient pas même nés, – mon père je l’ai tué avant sa mort, ma mère n’est pas morte encore quoiqu’on me le dise et si un cerveau à bretelles et un cœur de farine me font remarquer que j’ignore la limite qui sépare le désir de la réalité, je leur rappellerai le rêve, je leur rappellerai la réalité de demain du désir ou, peut-être, je les injurierai et, continuant à regarder les portraits aux murs, je confondrai avec plaisir la chaise avec un chevalier médiéval, le soulier avec la pâle marquise qui le chausse, je passerai dans la salle suivante bras dessus, bras dessous avec l’objet, entre les ombres et leurs fossiles, entre les miroirs qui ne me réfléchissent pas, entre les regards qui ne m’espionnent pas, qui ne me dissèquent pas, ne surprenant rien et rien ne pouvant me surprendre dans un monde de surprise, dans un monde d’apparitions inattendues, que j’attends tout en ne les attendant pas, elles se montrent avant d’être attendues, précisément à l’instant où les lèvres s’humectent pour recevoir le baiser ou bien les dents ou bien le vent ou bien le cou blanc qui se découvre à la lune, s’offrant à la respiration froide (comme deux stylets) du vampire. […]

(Ghérasim Luca, Le Vampire passif, éditions José Corti, 2001, pp. 41-44)

*

Gli oggetti, queste misteriose armature sotto le quali sta in attesa, notturno e denudato, il desiderio, queste trappole di velluto, di bronzo, tele di ragno che ci gettiamo addosso ad ogni passo; cacciatore e selvaggina nella penombra delle foreste, a un tempo foresta, bracconiere e taglialegna, il taglialegna ucciso sotto un albero e coperto dalla sua barba che sa d’incenso, di bontà, di questo-non-è-possibile; liberi infine, soli infine con noi stessi e con tutti, avanzando nell’oscurità con occhi di gatto, con denti di sciacallo, con capelli dai contorni lirici, disfatti, sotto una camicia di vene e di arterie attraverso la quale il sangue scorre per la prima volta, siamo illuminati all’interno dai grandi proiettori del primo gesto, dicendo quel che doveva essere detto, facendo quel che doveva essere fatto, condotti tra le liane, le farfalle e i pipistrelli, come il bianco e il nero su una scacchiera; nessuno si sogna di vietare le caselle nere e l’alfiere, – le  formiche spariscono, il re e la regina spariscono, anche le sveglie spariscono, introduciamo di nuovo la canna, la bicicletta a ruote disuguali, l’orologio, il dirigibile, tenendo il sifone, il ricevitore telefonico, la doccia, l’ascensore, la siringa, gli apparecchi automatici dove introducendo una moneta compare del cioccolato; gli oggetti, questa catalessi, questa fissità dello spasmo, questo «fiume dove ci si bagna una sola volta» e nel quale c’immergiamo come in una fotografia ; gli oggetti, queste pietre filosofali che liberano, trasformano, allucinano, comunicano il nostro urlo, queste urla di pietra che infrangono i flutti, attraverso cui passano l’arcobaleno, immagini viventi, copia dell’immagine, sogno di voi perché sogno me stesso, fisso ipnoticamente il diamante che contenete, prima di addormentarmi, prima di addormentarvi, ci attraversiamo reciprocamente come due fantasmi in una sala di marmi con, ai muri, i ritratti degli antenati a grandezza naturale, il ritratto di un cavaliere medievale che si trova accanto al ritratto di una sedia, guardando questi due fossili di fantasmi sui muri di questo museo spettrale e se è vero che siamo delle ombre allora gli uomini e gli oggetti che ci circondano non sono qui che le ossa delle ombre, le ombre delle ombre, perché qui non si muore, qui la scomparsa, l’allontanamento o la putrefazione di una donna non uccide il desiderio al quale si ricollega come la fiamma di una candela al gioco d’ombra e di luce che intrattiene intorno a sé, quando, tremanti tra le lenzuola e trasfigurati dalla febbre, si mormora il suo nome adorato ; no, finché il desiderio perdura non si muore: gli uomini che vivono muoiono più facilmente, gli uomini che incontro per strada che fanno i gesti soliti, sorridenti o aggrottando le sopracciglia sulle terrazze dei caffè o nella metropolitana, frettolosi, che indossano cappelli, o orecchi. Questi uomini sono morti da tempo benché non siano neanche nati, – mio padre l’ho ucciso prima della sua morte, mia madre non è ancora morta sebbene mi dicano il contrario e se un cervello con le bretelle e un cuore di farina mi fanno notare che ignoro il limite che separa il desiderio dalla realtà, ricorderò loro il sogno, ricorderò loro la realtà futura del desiderio o, forse, li ingiurierò e, continuando a guardare i ritratti appesi ai muri, confonderò con piacere la sedia con un cavaliere medievale, la scarpa con la pallida marchesa che la calza, passerò nella sala successiva sottobraccio con l’oggetto, tra le ombre e i loro fossili, tra gli specchi che non mi riflettono, tra gli sguardi che non mi spiano, non mi sezionano, non sorprendendo niente e niente potendo sorprendermi in un mondo di sorpresa, in un mondo di apparizioni inattese, che aspetto senza aspettarle, si mostrano prima di essere aspettate, precisamente nell’istante in cui le labbra si inumidiscono per ricevere il bacio o i denti o il vento o il collo bianco che si scopre alla luna, offrendosi alla respirazione fredda (come due stiletti) del vampiro. […]

(Tr. alfredo riponi)

Restituire in un’altra lingua non soltanto il libro-oggetto surrealista con le immagini inserite nel testo; ma la scrittura poetico-filosofica di Ghérasim Luca.. [N d T]

*

Publié en 1945 aux éditions de l’Oubli à Bucarest, Le Vampire passif fut remarqué par le milieu surréaliste français notamment parce qu’un extrait figura dans la revue dirigée par Georges Henein « La part du sable » en 1947 en compagnie de textes de Fardoulis-Lagrange, Jabès, Michaux. Les premiers textes de Ghérasim Luca et particulièrement le Vampire Passif, comme le souligne Dominique Carlat, cherchent à prolonger l’ébranlement suscité par les textes surréalistes s’interrogeant sur la fragilité de la frontière établie entre le « hasard objectif », et le délire d’interprétation avec un humour corrosif. Le Vampire passif se présente comme un objet littéralement impossible à définir : mêlant exposé théorique et prose poétique haletante, confessions personnelles et visées scientifiques, clichés photographiques d’Objets Objectivement Offerts – catégorie nouvelle créée par Luca qui s’engouffre dans l’espace ouvert par Breton pour, grâce à ces OOO capter le hasard dans sa forme dynamique et dramatique parce qu’ils sont capables d’objectiver l’ambivalence des pulsions, nos tendances d’amour-haine trouvant dans le monde des objets extérieurs une équivalence presque continuelle.

(http://www.jose-corti.fr/titresfrancais/vampire-passif-luca.html)