De Quincey | La visione della morte improvvisa

per WR

De Quincey
La visione della morte improvvisa

L’altra osservazione riguarda il significato della parola improvvisa. Molto probabilmente Cesare e la Chiesa cristiana non dissentono nel senso che si suppone, cioè non dissentono per una differenza di dottrina sulla concezione pagana e cristiana dello stato d’animo appropriato alla morte, ma forse contemplano casi diversi. Ambedue pensano a una morte violenta, a una Biathanatos cioè morte Biatos, o, in altre parole, morte che sopravviene non per un cambiamento interno e spontaneo, ma per forza attiva di origine esterna. Su questo significato le due fonti concordano; fin qui sono in armonia. Ma la differenza è che il romano con la parola « improvvisa » intende non lenta, mentre la litania cristiana con « morte improvvisa » vuole dire morte impreveduta, e perciò senza nessun appello alla preparazione religiosa. […]
Comprendiamo subito, da questa netta distinzione verbale, il costante fervore con cui la Chiesa cristiana intercede in favore dei suoi poveri figli morenti, affinché Iddio conceda loro l’ultimo grande privilegio e segno di considerazione sul letto di morte, cioè l’opportunità di prepararsi serenamente ad affrontare la grande prova. La morte improvvisa semplicemente come una delle varie maniere di morire, dove la morte in una forma o nell’altra è inevitabile, presenta una questione di scelta che, sia nel senso romano sia in quello cristiano, sarà risolta diversamente secondo il diverso temperamento di ognuno. Intanto, vi è un aspetto, una varietà di morte improvvisa di cui non si può dubitare che sia il più sconvolgente dei tormenti; quando, cioè, essa coglie un uomo in circostanze che offrono (o sembrano offrire) una rapida, fuggevole, impercettibilmente piccola probabilità di evitarla. Lo sforzo per sottrarvisi deve essere rapido come il pericolo che si affronta. Ma perfino questo, perfino la disperante necessità di affrettarsi nel momento supremo in cui ogni precipitazione sembra destinata a riuscire vana, perfino questa angoscia può venire ancora orribilmente esasperata in un caso particolare: nel caso cioè in cui l’appello non si rivolga esclusivamente all’istinto di conservazione, ma alla coscienza, per la salvezza di un’altra vita, oltre la nostra, affidata per caso alla nostra protezione. Fallire, soccombere, quando si tratta esclusivamente di noi, può sembrare relativamente perdonabile, sebbene, in realtà, sia ben lungi dall’esserlo. Ma fallire quando la Provvidenza ha improvvisamente posto nelle nostre mani i supremi interessi di un altro, di un nostro simile, tremante alle soglie della vita e della morte: questo, per un uomo di coscienza scrupolosa, unirebbe al supplizio di una sanguinosa disgrazia, il supplizio di un atroce delitto. Nel caso prospettato possiamo forse essere chiamati a morire, ma a morire proprio al momento in cui, per ogni cedimento anche minimo, per ogni femmineo collasso delle nostre energie, ci accuseremmo di assassinio. Per il nostro sforzo non avevamo che un attimo e quello sforzo avrebbe anche potuto riuscire vano; ma l’essere elevati all’altezza di un tale sforzo ci avrebbe salvati, non già dalla morte, ma dal morire come traditori del nostro ultimo ed estremo dovere.

de Certeau | Utopie Vocali

Sul sito del Centro Internazionale di studi interculturali di Semiotica e Morfologia di Urbino anteprima del libro “M. de Certeau, Utopie Vocali. Urbino 1978 (Dialoghi con P. Fabbri e W. J. Samarin), a cura di Lucia Amara”, Mimesis Edizioni, novembre 2015.

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