la persuasione e la rettorica | michelstaedter

“Voi che cercate la prudenza, che cercate il sapere, l’affermazione assoluta, voi che cercate la pace della conoscenza, l’acutezza dello sguardo, che cercate il piacere:

il piacere è il fiore del dolore, il dolce è il fiore dell’acerbo, l’acutezza è il fiore della profondità, la pace è il fiore dell’attività, l’affermazione è il fiore della negazione, il sapere* è il fiore della fame, la prudenza è il fiore del coraggio; poiché il dolore non cerca il piacere ma il possesso, la profondità non cerca l’acutezza ma la vita, l’attività non vuole la pace ma l’opera, la negazione non vuole affermare ma negare, la fame non vuole il sapore ma il pane, il coraggio non vuole la prudenza ma l’atto.”

(Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, Adelphi 1982)

* sapore

In nota: forse sapere, che si legge con chiarezza… sta erroneamente per sapore, come sembrerebbe confermato dalla frase successiva  “la fame non vuole il sapore ma il pane”. 

le verger | harry mathews

Arrivò… proprio mentre il frutteto cominciava a fiorire.

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Ricordo d’essere rientrato a casa con Georges Perec dopo cena per fumare erba e ascoltare musica classica – opere grandiose, come il Requiem di Brahms – sdraiati sul tappeto del soggiorno, rotolandoci di piacere nei passaggi culminanti. In quei momenti, avrei voluto tenerlo tra le mie braccia.

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Ricordo che durante la nostra prima cena dopo la fine della sua psicanalisi, Georges Perec mi disse che adesso, quando scendeva in strada per imbucare una lettera, era conscio che stava scendendo in strada per imbucare una lettera.

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Ricordo di aver visto Georges Perec nella sua bara all’obitorio dell’ospedale: il suo viso era raggrinzito e serio, la bocca chiusa in modo innaturale (come se le labbra fossero state cucite per evitare che la mascella si afflosciasse), era stato pettinato in modo che i suoi capelli si attaccassero alla testa (quale impiegato di pompe funebri avrebbe potuto concepire il suo “afro”?) Catherine B. esclamò: “Ma non è lui!” e gli passò le dita tra i capelli per scompigliarli.

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Ricordo che durante uno dei nostri ultimi pasti insieme, Georges Perec espresse la sua tristezza di non avere una famiglia. Ad esempio, non sarebbe mai diventato l’erede di qualcuno. Gli promisi di metterlo nel mio testamento se questo poteva consolarlo.

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Ricordo che quando conobbi Georges Perec aveva un “problema di donne”. Sognava una donna bella, intelligente e realizzata che, nel bel mezzo dei suoi viaggi in giro per il mondo, apparisse di tanto in tanto davanti alla sua porta per offrirgli un amore assoluto, per poi scomparire.

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Ricordo di essermi svegliato undici giorni dopo la morte di Georges Perec per rendermi conto che stavo trasformando il ricordo di questa morte nella convinzione che ogni giorno sarebbe stato guastato in anticipo – una sorta di “angoscia del risveglio” ben comoda di cui ero tuttavia riuscito a sbarazzarmi sette anni prima.

(Harry Mathews, Le Verger, POL 1986)

luogo | david cooper

“… Noi possiamo essere quel luogo che non esiste più, da dove venne l’ondata di marea di Hokusai. «Noi» gettiamo un sasso nella piscina che è «noi». La pietra affonda. Noi siamo «l’affondare» e siamo le increspature (le onde della marea, tsunamis) che si allargano dal punto di contatto tra la pietra e la superficie della piscina che non è più lì perché il sasso l’ha lasciata per un luogo nel quale neppure noi siamo (il fondo di noi stessi). Una vera fenomenologia di scienza fisica deve occuparsi dell’apparire dell’azione e dello scomparire degli oggetti. Una vera fenomenologia dell’io è basata sulla realizzazione della sua non-apparenza affiorante in esperienze critiche di assenza. Per dirla in altro modo, l’io è sempre il luogo dal quale siamo venuti e verso il quale andiamo, ma l’apparire della nostra venuta è lo scomparire di quel luogo, che rimane sempre senza esistenza sia nel passato che nel futuro e, con maggior evidenza, nel presente”. (David Cooper, La morte della famiglia, Einaudi 1972).

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Ritorneremo [nel luogo] da dove siamo venuti.

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du  bon  usage de  la  décapitation | pierre guyotat

Vendredi Saint mille neuf cent quatre-vingt, Italie, Ombrie, ruines romaines de Carsulae, près Terni ville  natale  de Tacite. Le Livre, Histoires de Samora Machel fraîchement achevés. Cinq dures nuits à ciel ouvert dans la  boue glacée des  Abbruzes. Pain, huile, sel. À nouveau, comme après chaque livre, cette force qui me pousse, au risque d’y perdre la  raison ou la  vie, à retourner dans l’un des  lieux possibles  de sa genèse pour le pétrifier, le dessécher, le  stériliser, le rendre inutilisable à jamais pour un  livre nouveau. Moi donc, abandonné des  hommes et de Dieu, voyant tout mais n’étant vu de rien. Un  compagnon  : mon double, jeune  archéologue iroquois.

Troisième heure de l’après-midi : le sang se retire de toutes mes veines. Une fois de plus, dans ces années si lourdes, le Poids du Monde sur ma nuque. Où en finir ? Où, comment disparaître sans laisser de traces ni dans la terre ni dans la mémoire des plus proches ? Par pitié, que je trouve le  lieu du monde le  plus originel, le plus vierge pour m’y faire disparaître en beauté ! Ce lieu n’existe pas. Serait-ce le giron du Créateur ? Pour y sauter dedans, au plus vite, où, comment, pour quoi, par qui me faire martyriser ?

Lâchant là le ruban décamètre avec quoi j’aide l’autre à mesurer la ruine de cet espace latin dont neuf mois auparavant je mesurais encore en métrique poétique la monumentalité sexuelle métaphysique en vie, je précipite ce qui me tient lieu de corps, son nimbe peut-être déjà, vers la limite paléochrétienne du champ de fouilles…

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Venerdì Santo millenovecentottanta, Italia, Umbria, rovine romane di Carsulae, vicino a Terni, città natale di Tacito. Il libro, Histoires de Samora Machel, appena finito. Cinque notti dure a cielo aperto nel fango ghiacciato degli Abruzzi. Pane, olio, sale. Ancora una volta, come dopo ogni libro, questa forza che mi spinge, a rischio di perdere la ragione o la vita, a ritornare in uno dei possibili luoghi della sua genesi per pietrificarlo, disseccarlo, sterilizzarlo, renderlo per sempre inutilizzabile per un nuovo libro. Io, allora, abbandonato dagli uomini e da Dio, vedo tutto ma non sono visto da nulla e da nessuno. Un compagno: il mio sosia, un giovane archeologo irochese.

Ora terza del pomeriggio: il sangue si ritira da tutte le mie vene. Una volta di più, in questi anni difficili, il Peso del Mondo sulla mia nuca. Come finirla? Dove, come sparire senza lasciare tracce né nella terra né nella memoria di chi mi è più vicino? Per pietà, che io possa trovare il luogo più originale e più vergine del mondo per scomparirvi in bellezza! Questo posto non esiste. Potrebbe essere  il grembo del Creatore? Per saltarvi dentro, il più rapidamente possibile, dove, come, per cosa, da chi farmi martirizzare?

Lasciando lì il nastro decametrico con cui aiuto l’altro a misurare la rovina di questo spazio latino del quale nove mesi prima misuravo ancora in metrica poetica la monumentalità sessuale e metafisica ancora viva, faccio precipitare ciò che fa le veci del mio corpo, forse già la sua aureola, verso il limite paleocristiano del campo di scavo…

 (Pierre Guyotat, Divers, Les belles lettres 2019)

emma santos | la malcastrée

« J’ai eu envie d’écrire quand on m’a fait taire sous médicaments, une lutte. J’ai eu envie de me regarder quand on m’a dit en arrivant dans cet hôpital, tu n’existes pas, tu es folle, quand on m’a fait disparaître dans une chemise blanche trop grande. Je rêve de me regarder dans une glace. Ils on enlevé tous les objets coupants et mon miroir. La plus dure des punitions de ne pas se voir. Je remplis une bassine d’eau et je me regarde dedans. Je me regarde longtemps, je me regarde, regarde encore. Je me verrai dans la cuvette crasseuse que l’on se passe de fou à fou, l’eau graisseuse.  je me verrai jusque dans ma bave. Je me regarde dans l’écriture. »

«Ho avuto voglia di scrivere quando, sotto l’effetto dei farmaci, mi hanno fatto tacere, una lotta. Volevo guardarmi quando mi hanno detto, arrivando in quest’ospedale, non esisti, sei pazza, quando mi hanno fatto sparire dentro una camicia bianca troppo grande. Sogno di guardarmi allo specchio. Hanno tolto tutti gli oggetti appuntiti e il mio specchio. La punizione più dura è non vedersi. Riempio d’acqua una bacinella e mi guardo dentro. Mi guardo a lungo, mi guardo e mi guardo ancora. Mi vedrò nel catino sporco che ci si passa tra pazzi, l’acqua unta. Mi rivedrò fin nella mia bava. Mi guardo nella scrittura.»

Emma Santos, La Malcastrée, Editions des femmes, 1976. p. 96.

emma santos | la loméchuse

On vivait ensemble. J’allais à l’ècole. Je cueillais et rapportais l’argent. Toi tu m’attendais au lit. Tu pensais à penser. Tu étais ma loméchuse.

J’ai lu dans un livre de Sciences que la fourmi sanguine se drogue au sperme d’un insecte parasite, la loméchuse. Ma larve au lit, mon insecte nuisible. Femme utile. Toi loméchuse tu dévorais mes ceufs mes larves et mes foetus que j’oubliais dans ma gorge et moi fourmi rouge je me nourrissais à tes seins. Je léchais la pilosité or sur ton abdomen qui sécrète la liqueur jusqu’une folie. Liquide vital. Je m’enivrais de ton corps suave et de Thyroxine capiteuse. Sucer la Thyroxine à tes seins… Sucer la Thyroxine à ton corps… Je suçais tes poils blonds de Vénus Renaissance. Je m’abreuvais à ta sueur, je buvais à toi et je recherchais dans ta blouse de médecin le gout blanc éthéré. Loméchuse ma loméchuse, nous deux fourmi et loméchuse, deux insectes après l’humain, deux bêtes ayant fui la haine. Couvertes de duvets blonds, des algues flot- tantes dans l’eau. Eau. Eau. Eau.

*

Le psychiatre comme tous les psychiatres l’écoute peu, envoie des médicaments par téléphone. Un prélat tranquille vètu d’or distribuant des bénédictions aux enfants affamés. Comme les pneumatiques à la poste c’est la machine psychiatrique. Le malade dressé intoxiqué à l’autre bout du tuyau reçoit le comprimé directement dans la bouche.

Le psychiatre décide : le médecin vous rappelait votre mère c’était votre mère en quelque sorte…

On ne s’en sort pas de la recherche du pére et de la mère, papa maman sur la ligne bleue des Vosges, dans un rayon de soleil, la ligne Maginot et la France autour comme un hexagone à huit côtés. C’était sa sœur son amante sa sœur d’amour. Elles vivaient ensemble, elles vivaient dans un monde liquide. Elles parlaient le langage de l’eau. Eau. Eau. Eau.

Le psychiatre dit encore : il faudrait reprendre votre métier, ce beau métier d’enseigner, transmettre le savoir, le contact avec les jeunes…

Enseigner, enseigner, on n’enseigne rien. On impose sa haine par la peure et ses petites tracasseries du jour au jour c’est tout.

**

Vivevamo insieme. Andavo a scuola. Raccoglievo e portavo a casa i soldi. Tu mi aspettavi a letto.  Pensavi a pensare. Eri la mia lomechusa.

Ho letto in un libro di Scienze che la formica sanguinea si droga con lo sperma di un insetto parassita, la lomechusa. La mia larva a letto, il mio insetto dannoso. Donna utile. Tu lomechusa hai divorato le mie uova, le mie larve e i miei feti che dimenticavo in gola e io, formica rossa, mi nutrivo al tuo seno. Ho leccato i peli dorati del tuo addome che secernono il liquore fino alla follia. Liquido vitale. Mi inebriavo del tuo corpo soave e dell’inebriante Tiroxina. Succhiando la Tiroxina dal tuo seno… Succhiando la Tiroxina dal tuo corpo… Succhiavo i tuoi peli biondi di Venere rinascimentale. Mi abbeveravo al tuo sudore, ho bevuto di te e ho cercato nel tuo camice di medico il gusto bianco etereo. Lomechusa mia lomechusa, noi due formica e lomechusa, due insetti dopo l’umano, due bestie sfuggite all’odio. Ricoperte di peluria bionda, alghe che galleggiano nell’acqua. Acqua. Acqua. Acqua.

*

Lo psichiatra, come tutti gli psichiatri, l’ascolta poco, gli manda i farmaci per telefono. Un prelato tranquillo vestito d’oro che distribuisce benedizioni ai bambini affamati. La macchina psichiatrica è come la posta pneumatica dell’ufficio postale. Il paziente intossicato, ammaestrato all’altra estremità del tubo, riceve la compressa direttamente in bocca.

Lo psichiatra decide: il medico gli ricordava sua madre, era tua madre in un certo senso…

Non se ne esce dalla ricerca del padre e della madre, papà mamma sulla “linea blu” dei Vosgi, in un raggio di sole, la linea Maginot e la Francia intorno come un esagono a otto lati. Era sua sorella, la sua amante, la sua amorevole sorella. Vivevano insieme, vivevano in un mondo liquido. Parlavano il linguaggio dell’acqua. Acqua. Acqua. Acqua.

Lo psichiatra dice ancora: dovresti tornare al tuo lavoro, quel bel mestiere che è l’insegnamento, la trasmissione del sapere, il contatto con i giovani…

Insegnare, insegnare, non si insegna nulla. Imponi il tuo odio attraverso la paura e le tue piccole seccature di ogni giorno, tutto qui.

Emma Santos, La loméchuse, Editions des femmes, 1978. pp. 114-115; p. 129.