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In alcune fondamentali immagini del film, apertamente allusive ad un passato che potrà essere anche futuro se qualcuno saprà volerlo (le montagne pacificate, l’oleandro fiorito, il panorama di Firenze, la collina del finale) c’è un continuo scambio fra “rinuncia” e “promessa”. La rinuncia, la Entsagung, si converte, anche, in promessa. L’assenza dell’uomo, dov’è più assoluta (perché anche la voce tace, come nella sequenza delle Apuane) afferma la “enorme presenza dei morti”; ma non sono soltanto quei morti, non soltanto le vittime degli eccidi nazisti. Quando il presente è visto da fuori del presente, esso diventa un luogo sul quale si possono proiettare gli spiriti passati e venturi. Ecco dunque che lo spazio delle montagne apuane implica una proposta di abitabilità; e abitabile è anche Firenze, fintanto che è veduta dalla collina. Quella proposta sommessa è però continuamente contraddetta, in altre sequenze, dal fragore del presente o dalla legge del passato, con la sua impraticabile santità (lo scampanìo, il traffico, la voce del rabbino che soverchia quella narrante). “Non qui ma altrove” è il pensiero dominante del film. In verità ciò significa: “Non oggi ma ieri e domani”. Per questo il suo intendimento profondo non è diverso da quello che era stato il mio. È detto con altri strumenti, è dilatato a maggiore significazione. La panoramica della Apuane non “dice” soltanto quel che vi è accaduto e quanta calma copra i luoghi delle stragi antiche e moderne. “Dice” anche che questa terra è il luogo abitabile per gli uomini, è quello che dobbiamo abitare. Allora Straub chiede a me di tacere. La mia voce deve scomparire perché, come è scritto in Le temps retrouvé, “cresca l’erba non dell’oblio ma delle opere feconde, sulla quale le generazioni future verranno lietamente a fare le loro ‘colazioni sull’erba’, incuranti di chi dorme là sotto”. Questo è detto nel rapporto fra i ragionamenti – o le invettive – del testo e l’attenzione (la parola è di S. Weil) della macchina da presa. Straub ha allontanato e chiuso per sempre non solo un episodio della interminabile Judenfrage ma anche un tentativo (il mio) di regolare certi conti, di sbarazzarmene. Il suo film va ben oltre il mio testo.

[Franco Fortini, Una nota 1978 per Jean-Marie Straub, in I cani del Sinai]

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Nella nota per Jean-Marie Straub, posteriore di dieci anni al libro, la scrittura di Fortini diventa sperimentale, perché l’immagine si sovrappone allo scritto, lo duplica, lo espone (nei fotogrammi) e lo fa scomparire, fa tacere il suo autore. La ‘sua’ voce che “nell’atto medesimo in cui parla di ‘realtà’ è soverchiata dall’assenza”. “L’assenza dell’uomo, dov’è più assoluta (perché anche la voce tace, come nella sequenza delle Apuane) afferma la ‘enorme presenza dei morti’.”. E se la lotta materialista ha bisogno di un “supplemento d’anima” alla stregua del paesaggio che abbaglia; così, anche “le parole smettono di far male” quando qualcosa-qualcuno spezza l’incanto-prigione del lirismo e dell’autobiografia, sconvolgendo punteggiatura e sintassi. “soverchiato dall’assenza segnando a dito con esattezza le fosse di quel che non c’è le lacune del reale in una luce stupefatta luce di cenere sulle muraglie di Firenze e le colline”.

  1. r.

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